audience engagement

Continuiamo a parlare di “audience development” con il direttore artistico di B.motion danza, Roberto Casarotto, che ci racconta che tipo di ricaduta sta avendo una progettualità che mette al primo posto il coinvolgimento attivo dei cittadini sul lavoro quotidiano della Case della Danza europee.

Il lavoro sul pubblico è al centro delle azioni promosse dalle Case della Danza europee, ci racconti come ha preso vita la progettazione in materia di audience development?
Per prima cosa ci siamo subito accorti come questa denominazione creasse delle discrepanze su quello che era il significato di “audience development”, perché le indicazioni che venivano date in sede di bandi europei, e dalle varie politiche culturali facevano pensare più a una politica di numeri che a una crescita sostenibile e costruttiva dell’audience. E’ nata quindi da subito una specie di controproposta da parte dei diversi membri delle Case della Danza europee. Ci siamo chiesti come rendere percepibile la rilevanza della danza nella società. Nel caso di Bassano uno degli esempi più eclatanti è il progetto “Dance Well” dove appunto, la danza entra nella vita dei cittadini, la stravolge, la cambia, la migliora, e la fa percepire come un’arte importante, rilevante, imprescindibile da quello che può essere un piano culturale.

Come si sono coordinate le case della danza a tal proposito?
E’ nato a livello europeo e nazionale un percorso attraverso il quale ci chiediamo sempre di più come coinvolgere i cittadini, e non a caso parliamo di cittadini e non più di audience, proprio perché vogliamo proporre delle progettualità culturali rivolte a chi abita un territorio, in maniera indistinta da quella che può essere la nazionalità, provenienza, e l’estrazione economica, sociale, culturale.

Che tipo di impatto ha avuto tutto questo sul vostro lavorare nel quotidiano?
E’ un impatto molto forte, perché questo pensiero di immaginare chi sono i cittadini di oggi ci ha fatto rilevare la possibilità di proporre delle iniziative che non parlino solo a dei bianchi benestanti, appartenenti a un’élite culturale, ma di porci veramente degli interrogativi su come informiamo e comunichiamo le nostre progettualità, e su come riusciamo a coinvolgere diverse generazioni e diverse culture, e i diversi soggetti che abitano il nostro territorio. Questo a sua volta sta cambiando pian piano il modo in cui caliamo nella quotidianità alcune iniziative culturali, ci mette molto di più in dialogo sia con i giovani che con gli anziani, e ci porta a far più attenzione alle parole che usiamo per comunicare un arte che viene, in maniera stereotipata, considerata di nicchia o spesso incomprensibile, lontana dalla quotidianità.

Come tipo di sviluppo avranno queste azioni nel prossimo futuro?
Ci sono diversi esempi di buone pratiche in materia, però non c’è un pensiero congiunto e in qualche modo ordinato su come costruire dei valori o dei principi attraverso i quali poi declinare le singole iniziative, o le singole idee nei diversi contesti, territori. Io non credo nella replicabilità di modelli tout court da un contesto all’altro. Questo implica mettere in campo delle professionalità altamente qualificate che hanno sviluppato studi ricerche e lavorato in maniera molto ordinata dei criteri e delle linee guide sul pensiero dell’audience development. Da questi dialoghi con queste figure è nata sicuramente l’esigenza di avere un piano regolare nel tempo, non delle attività spot, e questo ci pone di fronte alla necessità di una rivisitazione critica dell’entità “Festival”, che per sua natura ha un’ articolata vita…